sabato 31 agosto 2013

quarta edizione del GenderDocu Film Fest: la seconda serata

Tre i documentari in programma per la seconda serata della quarta edizione del GenderDocu Film Fest.

Si è cominciato con il piccolo (per la durata) sorprendente film documentario di Filippo Demarchi, Taglia corto! (Svizzera, 2013). Giovane di Losanna, nato a Zurigo, Demarchi ha girato il suo film in Italiano, che è la lingua madre del padre ma non della madre.
Il corto, che è il saggio di fine corso alla École Cantonale d'Art de Lausanne, ritrae i genitori del regista mentre discutono con lui della sua omosessualità che entrambi non riescono ad accettare. Il padre gli garantisce il rispetto ma non il sostegno mentre la madre è più interessata che il figlio si lasci la porta aperta anche verso le ragazze.

Girato senza una particolare ricerca formale dell'inquadratura, il corto, selezionato da diverso materiale registrato, restituisce con una icasticità commovente un confronto familiare tra tre adulti: padre, madre e figlio 24enne, il cui rispetto individuale è riscontrabile sia nella reciprocità sia nella onestà intellettuale con la quale sanno tutti e tre guardarsi dentro e comunicare l'uno con l'altra .

Così il figlio chiede solidarietà ai genitori non in nome di un astratto rispetto per la diversità ma perchè vorrebbe avere dei consigli sul ragazzo del quale è innamorato.
Il padre a vedere la foto del ragazzo (molto giovane, con i capelli lunghi biondi e fluenti) commenta che sembra quasi una ragazza e quini tanto varrebbe che e che pensando agli uomini si immagina persone più maschili di quelle che piacciono al figlio.
Nessuna imposizione, nessun dover essere, solo un onesto confronto tra quello che si pensa, si sente, ci si aspetta.

Il figlio può così dire al padre senza rimproveri di esserci rimasto male quando una volta, prima del suo coming out, gli ha presentato un suo amico, del quale il padre gli aveva chiesto se fosse gay perchè il figlio si è snetito sentito sminuito nella sua amicizia, platonica,  con quel ragazzo, che il padre riduceva a una questione sessuale.

Mentre il padre commenta che all'epoca lui non sapeva che il figlio fosse gay il figlio da un lato afferma il suo risentimento per quel modo di pensare, dall'altro riconosce al padre, come individuo, il diritto di esprimere le proprie idee anche se lui le aborre chiedendogli poi come dovrebbe reagire (ti dovrei forse odiare?).
La madre dal canto suo lo esorta a non farsi influenzare negativamente dalle loro reazioni o commenti negativi.

Ai dialoghi tra padre madre e figlio, insieme o separatamente, nei quali il figlio è presente solo in voce trovandosi sempre dietro la videocamera e dunque fuori campo Demarchi alterna alcuni momenti di vita familiare (le cure del giardino dove il padre gli dice cosa potare e cosa no o come muovere ila tosaerba in un confronto tra quotidianità ed eccezionalità che restituisce l'idea di una vita familiare è già una ricostruzione dei rapporti e degli assetti genitori figli che per gli standard della famiglia Demarchi è un processo normale pur in una dialettica di rifiuto ma che, visti con l'occhio cattolico italiano è un paradigma quasi irraggiungibile.


Senza insistere troppo sulla chiave religiosa intesa qui nella sua dimensione culturale e non confessionale la statura etica di queste persone, di questa famiglia è anni luce lontana dalle bassezze delle famiglie italiane, quelle in cui ancora oggi i figli e le figlie omosessuali vengono letteralmente buttati e buttate fuori di casa dai genitori senza che i figli e le figlie così illegalmente trattai\e non si ribellano e non rivendicano i propri diritti rivolgendosi come si dovrebbe sempre fare a un giudice. Perchè anche nell'Italia omofoba a un genitore a una genitrice non  è più consentito di cacciare di casa e smettere di mantenere un figlio o una figlia perchè omosessuali. Sono lontani per fortuna i tempi del caso Braibanti.

Invece nella maggior parte dei casi la prole non rivendica i propri diritti perchè in fondo, là dove si annida l'omofobia interiorizzata, non vogliono imporsi ai propri genitori e si sottraggono a un confronto anche duro, aspro, inchiodandoli alle loro responsabilità.

Questo cortometraggio mostra come se la forma documentario sa cogliere la realtà (a saperlo usare bene naturalmente non è un risultato che si ottiene automaticamente) questo non è certo garantito dalla presa diretta ma dall'operazione che segue (il montaggio del materiale selezionato) e precede le riprese.

All'inizio, ha raccontato Demarchi presente al Village, i genitori non volevano affatto parlare del suo coming out e pretendevano di essere presentati come esperti di capitalismo ai quali il figlio doveva rivolgersi dando loro del lei.
Poi l'insistenza e la pratica di ripresa hanno ammorbidito i genitori ed è stata resa possibile una modalità comunicativa così intima e spontanea nonostante la presenza della videocamera.
Un processo graduale e non sempre facile del quale rimane una traccia anche nella  selezione drastica fatta da Demarchi (appena 13 minuti di durata, essenziale anche in questo in controtendenza rispetto una certa tendenza alla pletoricità che molti cineasti della camera verità hanno)  quando a un certo punto il padre si sottrae all'intervista definendola una pagliacciata e Demarchi continua a riprendere il suo posto vuoto.

Sottraendo il corto all'equivoco che la verità di quanto accade sullo schermo scaturisca naturaliter dalla spontaneità della diretta e non dall'istanza produttrice che riprende e monta le riprese Demarchi si attesta nel cuore del meccanismo documentario che è sempre un meccanismo traslato perchè la verità non sta nelle immagini mostrate ma in quell'oltre che hanno determinato quelle immagini, in un prima e un dopo la ripresa di cui il cortometraggio è un esempio paradigmatico della stessa una pratica discorsiva dei tre protagonisti. Un confronto d'altissima onestà intellettuale.

Presente anche sulla rete con altri lavori Demarchi si distingue per il discorso intelligente e l'occhio sincero che sanno usare gli strumenti video della contemporaneità sottraendosi alla estetica farlocca dell'immediato e della spontaneità sostenuta dal mercato e cerca, riuscendoci appieno, di usare il video per mostrare quell'oltre pirandelliano raggiungendolo con incedibile efficacia.



Più tradizionale e privo di novità formali il mediometraggio con alcune lungaggini e ripetizioni  My Love – The Story Of Poul and Mai (danimarca, 2013) di Iben Haar Andersen.
64 minuti di durata che potevano benissimo scendere a 50 nei quali la regista allestisce un materiale raccolto nell'arco di sei anni (ma nel documentario non ne viene dato conto oltre alla didascalia due anni dopo)  raccontando della storia d'amore tra Poul uomo danese ultrasessantenne che ha fatto coming out solo dopo la morte della figlia 17enne in un incidente d'auto (che l'ha vista morire carbonizzata) e del quarantenne thailandese Mai che ha conosciuto in un locale. 
Il documentario ci racconta delle vicissitudini burocratiche per ufficializzare la loro unione, l'accesso al registro per le unioni civili prima, la richiesta di permesso permanente di soggiorno dopo, alle quali si alternano alcuni racconti dei due uomini.
La famiglia che Mai ha in Thailandia e che vediamo quando Poul va in visita, una figlia grande, un figlio più piccolo e una sorella (della donna madre dei sui figli nulla sappiamo) e le vicissitudini di Poul la gioventù dell'uomo che pur sapendo da sempre che gli piacevano gli uomini non ha mai fatto sesso con un ragazzo in gioventù e ha deciso invece di farsi una famiglia (etero) e avere dei figli.
Tra immagini del menage familiare, molto sessista, Mai che cucina e Paul che fa il marito aspettando in salone (perchè Mai non lo vuole in cucina), alle interminabili giornate di lavoro (Poul è pescatore di salmoni), tra i racconti di gioventù di Paul e la brama di Mai di portare il figlio più piccolo, maschio, con lui in Danimarca (la figlia pi grande, fidanzata, è già di un altro maschio)  quello che manca completamente nel documentario è la sfera affettiva e sessuale della coppia che la regista non affronta minimamente.
Nemmeno un cenno alla sessualità di Poul che è stato con un uomo quasi da anziano (a 60 anni), non la restituzione pornografica o voyeuristica del suo rapporto con Mai ma il vissuto emotivo  della sessualità (com'è stato fare sesso con un uomo per la prima volta a età così avanzata?) della quale nel documentario non è presente nemmeno come assenza allusiva, ma, più semplicemente, non c'è. La storia d'amore fra questi due uomini è quella di una amicizia platonica di solidarietà e reciproca assistenza che farebbe contento anche Papa Francesco visto che nel film i due uomini vivono una vita casta dove il sesso viene sublimato nella solidarietà proprio come consiglia il catechismo cattolico alle persone omosessuali. Anche i baci che i due si danno sono rigidi e poco spontanei.
Quando l'ho fatto notare alla regista, anche lei presente al Village, lei mi ha risposto, piccata, che non sentiva l'esigenza di entrare nella camera da letto dei due uomini e che la loro storia d'amore non aveva bisogno del sesso.
Durante questa sua risposta il pubblico presente ha applaudito confermando la sessuofobia di noi italiani (e italiane) che separiamo borghesemente  il sesso dall'amore per cui a casa bacini e coccole mentre andiamo a cercare il sesso dalle prostitute o magari dagli escort...

E no cara Iben Haar Andersen la sessualità è parte integrante di ogni storia d'amore che posa definirsi tale e che nel tuo documentario del vissuto sessuale non ci si preoccupi nemmeno di spiegarne l'assenza è un atto di censura figlio di una visione della vita borghese e sessuofoba che inficia completamente il film che, da questo punto di rappresenta una negazione della pienezza della dignità dell'opzione omosessuale che quando assume le forme di una amicizia affettuosa tra adulti con alle spalle un vissuto etero ed entrambi padri di figli nati da quelle relazioni, questa relazione legittima ma non paradigmatica assurge a storia omosessuale tout court.  Perchè il sesso è amore anche non si fanno figli.

Terzo film della serata Ein Wochenende In Deutschland (Germania, 2013) di Jan Soldat, l'unico autore non presente al Village,  che in 25 minuti racconta del fine settimana di una coppia di uomini maturi (molto sopra la sessantina) che praticano del sesso sm abbastanza soft (spanking e l'uso di ortica).
Un sesso esplicito nelle riprese video (il sedere arrossato i corpi nudi dei tre uomini) non incentrato sull'orgasmo o sull'erezione ma su alcune pratiche sadomaso vissute nella loro centralità del piacere per il dolore, ricevuto e inferto, tra confidenze, dialoghi ricordi e risate, in amicizia e con tanto di caffè e torta dopo le sessione di pratiche sm.

Un film che deve tutto alla capacità del  regista Jan Soldat, classe 1984, di relazionarsi con la coppia della quale il regista è amico tramite la videocamera dietro la quale rimane sempre celato e restituire con uno guardo schietto divertito e non morboso la quotidiana assoluta normalità delle pratiche svolte sdoganando così anche la sessualità (n)(d)ella terza età che nella nostra società ipergiovanilista ruba il sesso riconcedendo la legittimità di pratica solo della gioventù. Nella realtà così non è  ce lo dimostrano questi tre signori divertenti e divertiti.

Questa seconda serata della quarta edizione del GenderDocu Film Festival, che ha visto ripristinati i voti del pubblico grazie alla presenza delle brochure assenti nella prima serata, ci ha regalato tre documentari molto diversi tra loro che costituiscono tre esempi squisiti di come il documentario può raccontare delle storie vere restituendo uno sguardo quello dei loro autori e autrici cui in qualche modo fa da specchio quello stimolato e suggestionato dello spettatore, il cui merito dall'assortimento alla qualità va all'intelligenza di Giona Nazzaro che tramite la sua creatura offre una comune pietra di paragone per misurare la comunanza di una stessa lingua parlata pur se delcinata in istanze assai diverse tra loro.

Chi ha avuto la fortuna di assistere alle proiezioni ha potuto godere di un programma di altissima qualità proposto da Nazzaro con una umiltà e e una onestà intellettuale molto poco italiane che fanno pensare a un brano di una canzone di Gaber:  Io non mi sento italiano ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Ecco ieri sera Giona ci ha fatto pensare che tutto sommato è ancora una fortuna essere italiani.